L’Associazione culturale CALABRIA PRIMA ITALIA sostiene l’assunto che il nome “Italia” sia nato nel territorio calabrese. Ne è scaturita una vivace polemica con intellettuali di altre regioni italiane (leggi l’articolo di Domenico Lanciano su CostaJonicaWeb.it).
Alcune riflessioni “fuori tema” sulla controversa questione.
di Domenico Condito
Capisco l’importanza storica della questione relativa alle origini del nome Italia, e apprezzo coloro che sostengono con impegno e competenza le ragioni del “primato”… calabrese! Tuttavia, la diatriba non mi appassiona molto, e la ritengo marginale rispetto alla priorità civile e culturale del nostro tempo. A che serve infatti rivendicare il primato di “Prima Italia” in un momento in cui è messa a rischio la sopravvivenza della stessa “civiltà italiana” con il contributo determinante di una componente importante della società calabrese?
Oggi l’Italia vive come in esilio, lontano dal suo vero “luogo”, dove la civiltà del Rinascimento aveva indicato al mondo l’orizzonte della modernità. Un paese ormai inconoscibile, scriverebbe ancora Anna Maria Ortese, in cui la degradazione è la dea del momento. Un patrimonio millenario di convenzioni e memoria delle convenzioni, di lingua e linguaggio del passato, mandato al macero, immolato alla dea della separazione, del distacco, dell’inconoscibilità.
Viviamo ormai in un paese estraneo, senza averne neppure la consapevolezza. Un po’ per mancanza di senso critico; forse anche per la grandezza della catastrofe. È il declino della “civiltà italiana”, e “ogni civiltà stremata – scriveva E. M. Cioran – aspetta il suo barbaro, e ogni barbaro aspetta il suo demone”. Ed eccoli i nuovi barbari, giunti dal profondo nord, fare razzia di memoria, simboli, identità, i “luoghi dell’anima” sui quali avevamo costruito nei secoli il senso fondante d’una identità comune.
La Lega Nord è tutto questo. Il disprezzo dell’italianità, l’orrore della memoria nazionale, la disgregazione del paese sono le ragioni fondanti della sua storia politica. E la secessione geografica, solo momentaneamente accantonata per puro calcolo strategico, è perseguita in realtà attraverso un’ampia e sistematica destrutturazione dei “simboli” comuni. Primi fra tutti, la lingua e il linguaggio. Scriveva Anna Maria Ortese: “Lingua e linguaggio; e memoria di lingua e linguaggio del passato; e degli affetti, i pensieri, i dolori delle passate generazioni, altro non sono lo sappiamo, che identità di nazione. Dunque libertà nazionale. E comincia con l’imposizione di un linguaggio, oppure, al contrario, con la distruzione sistematica del linguaggio originale di un paese – su cui si voglia agire in profondità; comincia con questa aratura imponente del suolo umano qualsiasi seria operazione di colonizzazione”.
In Italia si parlava una lingua alta. Il pensiero che in essa è nato ha aperto l’era moderna, e ad esso il mondo occidentale deve lo stesso concetto di “civiltà”. L’irruzione della Lega Nord sulla scena nazionale ne ha distrutto la grammatica, frammentato la sintassi, disperso il pensiero. I barbari, appunto, la tardiva progenie dell’oscurantismo medievale in Val Padana. E la distruzione della sintassi di un popolo ne segnano inevitabilmente il declino, la ricollocazione in una dimensione primigenia, l’esilio dalla modernità.
Il dileggio del tricolore, l’esposizione minacciosa del cappio in Parlamento, le invettive sprezzanti contro gli extracomunitari, la minaccia del ricorso ai fucili per la risoluzione delle controversie politiche, e le pietose esternazioni contro i meridionali sono tutte cadute del linguaggio a livello di gergo, intimidazione, beffa, cinismo. Degradazione della forma, ma anche naufragio del pensiero. Il tradimento di quell’idea di “civiltà” alla quale abbiamo ancorato la nostra storia, ma dalla quale siamo stati esclusi dalla barbarie leghista, volgarità al potere.
Negli ultimi anni, centinaia di migliaia di calabresi, con il loro voto, hanno contribuito a rendere possibile questa catastrofe nazionale, sostenendo la coalizione di centrodestra che ha garantito alla Lega Nord una posizione dominante nel governo del Paese.
Una tragedia che rischia di perpetuarsi e aggravarsi con le prossime elezioni politiche, grazie agli impegni assunti dall’Homunculus ridens con il barbaro padano. Una legge sul 75% delle tasse al Nord da varare nei primi 75 giorni di governo. Ovvero, il sacrificio del Sud in cambio del governo del paese, la nostra speranza di futuro immolata alla sete di potere del bauscia di Arcore. Altro che “Prima Italia”, la Calabria rischia di diventare il fanalino d’Europa! Non ci sarà nessuna possibilità di riscatto per la nostra regione senza una lotta decisa alla barbarie che avanza. È questa la nostra priorità epocale.
Invece, vinti dal sonno della ragione, tantissimi calabresi, governo regionale in testa, si apprestano ad immolare il nostro destino al vello d’oro della Val Padana, riversando una valanga di voti al centrodestra. In questo senso, non capisco la contraddizione insanabile dell’assessore Caligiuri, persona dotta ed erudita, che si prodiga per l’elevazione culturale della nostra regione e, allo stesso tempo, opera all’interno di una coalizione che, a livello nazionale, porta acqua al nefasto progetto leghista. Calcolo politico o di potere? In ogni caso, nessun gioco di parole, per quanto forbito e di livello, potrà giustificare la sostenibilità di tale posizione.
Il primato che sogno è che la Calabria possa diventare
“Prima in Italia”. Prima per valori etici, per il livello morale e culturale della classe politica, per la buona qualità dell’amministrazione della cosa pubblica, per la salvaguardia del territorio, per la valorizzazione delle risorse paesaggistiche, artistiche e culturali, per la lotta alle mafie, per il lavoro, la sanità e la tutela dei diritti a partire dalle categorie più deboli e discriminate. Un primato molto più difficile da costruire e conquistare, ma per il quale nessuno in Calabria sembra disposto a mettere a rischio la propria poltrona.
Cartellone posto all’ingresso ovest della Città di Catanzaro,
sulla superstrada Lamezia-Catanzaro (foto di Giovanni Balletta, gennaio 2011).