Domenico Condito, già Assessore alla Cultura e ai Beni Culturali del Comune di Stalettì, torna sui lavori in corso a Panaia con una lettera aperta rivolta al Sindaco di Stalettì. Nei giorni scorsi era intervenuto sulla stampa regionale e su queste pagine per segnalare l'importanza storica e archeologica dell'area (leggi gli articoli: su "Utopie Calabresi" e su "Il Quotidiano della Calabria").
Gent.ma prof.ssa Concetta Stanizzi, Sindaco di Stalettì,
Domenico Condito |
so che non ama il contraddittorio, che è l’anima della democrazia, ma è un suo problema, e non rinuncerò per questo a esercitare il mio diritto di cittadinanza.
Oggi, nell’intervista pubblicata dal Quotidiano della Calabria, afferma che a Panaia, dove il Comune di Stalettì ha avviato i lavori per realizzare un'area turistica attrezzata, ha agito nel pieno rispetto della legalità.
Ricordo che a Panaia, dove gli archeologi hanno segnalato nel 1991 l’emergenza di un’antichissima chiesa bizantina, è presente un’area archeologica ancora da indagare e di cui non si conosce ancora l’esatta estensione. Nel 1997, l’Amministrazione Comunale di Stalettì, di cui ero Assessore alla Cultura e ai Beni Culturali, con il supporto scientifico della prof.ssa Emilia Zinzi, aveva chiesto alle autorità competenti l’adozione di un provvedimento di vincolo del sito, con definizione della fascia di rispetto, e l'esplorazione estesa della zona a rischio circostante. Credo che a tutt’oggi non siano stati adottati i provvedimenti di tutela adeguati, se Lei può affermare di aver agito nel rispetto delle leggi, ma questo lo accerteranno le autorità competenti. Comunque sia, la storia della Calabria, e in particolare del territorio di Stalettì, è quella di una sistematica devastazione di aree archeologiche avvenuta talvolta nel pieno rispetto della legalità. È successo, e può ripetersi ancora, per il colpevole ritardo con cui troppo spesso le autorità competenti vincolano le aree a rischio, nonostante le segnalazioni e i rilievi di archeologi e studiosi.
Stalettì avrebbe avuto uno sviluppo culturale ed economico di ben altra importanza se, fra gli anni settanta e ottanta, il suo territorio non avesse subito una delle più vergognose e devastanti speculazioni edilizie della storia d’Italia. Una colata di cemento immane che, in fasi diverse, ha quasi completamente distrutto il considerevole patrimonio archeologico del territorio, danneggiandone anche le splendide risorse paesaggistiche. Mi riferisco, in particolare, alla costruzione di un complesso turistico-residenziale sull’area archeologica di Scillacium, la città monastica fondata da Flavio Magno Aurelio Cassiodoro nel VI secolo, e divenuta nei secoli successivi sede di uno dei più importanti insediamenti monastici bizantini del Sud d’Italia. Qui, le ruspe infami hanno distrutto uno dei patrimoni archeologici più significativi d’Europa, talvolta lavorando anche di notte con l’ausilio di gruppi elettrogeni, come quando fu effettuato lo sbancamento per la realizzazione della piscina del villaggio. In quella circostanza, come risulta dalle pubblicazioni degli archeologi dell’École Française de Rome, fu sventrata l’antica necropoli bizantina: i resti di uomini antichi e sapienti, dediti allo studio, alla preghiera e alla composizione di preziosi codici miniati, furono trattati alla stregua di spazzatura, insieme ai rilevanti reperti archeologici che affioravano durante lo scavo. Una triste storia calabrese, dove sommamente invereconda e colpevole fu la latitanza, se non la collusione diretta, delle istituzioni pubbliche deputate alla salvaguardia del territorio e delle sue risorse storiche, artistiche ed archeologiche. I lavori per la realizzazione del complesso si protrassero per diversi anni, in fasi successive. Ben tre furono le Amministrazioni Comunali che si succedettero in quel periodo. E queste non solo non si opposero allo scempio, ma fornirono anche il necessario supporto amministrativo e tecnico per l’espletamento delle pratiche edilizie. Agli atti del Comune di Stalettì esistono, inoltre, alcune autorizzazioni rilasciate dalla Soprintendenza per i Beni Ambientali Architettonici Artistici e Storici della Calabria, con sede a Cosenza, per la realizzazione di parte dei lavori. Non furono invece richiesti i pareri della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Calabria, perché l’area interessata non era stata sottoposta ancora a vincolo archeologico. Appunto! Quest’ultimo elemento, però, non giustifica il mancato intervento della Soprintendenza per i Beni Archeologici, o il comportamento delle Amministrazioni Comunali di quegli anni, ma costituisce, a mio parere, una pesante aggravante. Fin dagli anni trenta diversi e autorevoli studiosi avevano segnalato allo stesso Ente la rilevante importanza archeologica dell’area, identificandola insieme a quella di San Martino, poco distante, come “luogo cassiodoreo”: cito, fra tutti, l’Ispettore onorario Cesare Sinopoli nel 1931, Pierre Courcelle col Marrou nel 1938, ancora Courcelle negli anni cinquanta, e infine Emilia Zinzi con i suoi primi studi degli anni sessanta sui "luoghi cassiodorei". C’erano, insomma, tutti gli elementi e i riscontri tecnico-scientifici necessari per vincolare le aree interessate, e perchè la autorità locali perlomeno si opponessero all’esecuzione dei lavori. In particolare, la mancata adozione del provvedimento di tutela da parte dell’Autorità competente è stata un’omissione gravissima, colpevole e devastante per gli effetti che ha prodotto.
Tutti sapevano, nessuno è intervenuto, qualcuno era consapevolmente colluso. Non può essere altrimenti. I lavori, ripeto, sono stati realizzati nell’arco di diversi anni. Ci sarebbe stato tutto il tempo per bloccare la cementificazione e vincolare l’area.
I vincoli, purtroppo, per salvare ciò che è rimasto dei “luoghi cassiodorei”, sarebbero arrivati soltanto negli anni novanta, grazie all’azione dell’Amministrazione Comunale di cui facevo parte e al mio personale e pressante impegno. Azione che ho sempre condiviso con le associazioni culturali e ambientaliste del territorio (e come non ricordare la conferenza dei servizi a Copanello con l’on. Willer Bordon, sottosegretario del Ministero per i Beni Culturali, o il “filo diretto” con il ministro Veltroni sulle stesse questioni).
Operazioni analoghe a quella realizzata sulla Scillacium cassiodorea, furono compiute anche nelle località di San Martino e Palombaro, sempre a Stalettì. Certo, a San Martino sono salvi i ruderi della chiesa, anch’essa recintata come l’abside emergente della chiesa di Panaia, ma è scomparso per sempre il complesso monastico del Vivarium di Cassiodoro, con la sua immensa Biblioteca, che sorgeva tutt’attorno. E pensare che alcune fra le pagine più toccanti de Il quinto evangelio di Mario Pomilio sono ambientate proprio in quel remoto luogo dell'anima; e si tratta dell’ultimo grande romanzo della letteratura europea del Novecento.
In conclusione, signor Sindaco, se a Panaia non sono stati ancora adottati i necessari provvedimenti di tutela, Lei ha la responsabilità etica e culturale, prima ancora che amministrativa, di sollecitarli al più presto alle autorità competenti. Lei ora è ampiamente informata sull’esistenza e l’importanza dell’area archeologica, che si sviluppa ben oltre l’abside (e non la "fornace") che ha fatto recintare. Non può eludere oltre la questione: rinunci ai suoi lavori a Panaia, e ne divenga il principale tutore e custode. Nel pieno rispetto della legge, ne ha tutte le facoltà!