Musiche di Franz Liszt e Franz Schubert Testi di Dante Alighieri, Wolfgang Goethe, Giacomo Leopardi, Georg Philipp Schmidt von Lübeck
Angelo Guido pianoforte
Maria Luisa Bigai narrazione
Venerdì 25 novembre 2011 ore 20.30
Cosenza, Casa della Musica
Piazza Amendola (adiacente Cinema Italia)
Ingresso libero
Il prossimo concerto della ricca stagione programmata dal Conservatorio di Cosenza alla Casa della Musica è intitolato
Il viaggio interiore: l’avventura dello spirito alla ricerca di se stesso. Il pianista Angelo Guido (
nella foto) e l’attrice Maria Luisa Bigai, docenti al “Giacomantonio”, offriranno una scelta di grandi pagine pianistiche e momenti letterari sul tema del viaggio. Saranno eseguiti lo
Studio trascendentale n°9 “Ricordanza” e la
Fantasia quasi Sonata “Dopo una lettura di Dante”, scritti da Franz Liszt , di cui il Conservatorio celebra i 200 anni dalla nascita; di Franz Schubert la
Wanderer Fantasie (Fantasia del viandante). Le letture sono tratte da testi di Dante Alighieri, Wolfgang Goethe, Giacomo Leopardi, Georg Philipp Schmidt von Lübeck.
L’appuntamento è fissato per venerdì 25 novembre alle ore 20.30 alla Casa della Musica di Cosenza, in Piazza Amendola ( vicino al Cinema Italia e al Liceo “Della Valle”). Come di consueto alle manifestazioni del Conservatorio, l’ingresso è libero.
Caspar David Friedrich, Viandante sul mare di nebbia
(Der Wanderer über dem Nebelmeer), olio su tela (1818)
Note illustrative
Il Viaggio interiore: l’avventura dello spirito alla ricerca di se stesso
di Angelo Guido
La “Ricordanza” è un viaggio all’indietro, in quello ch’è stato e che non è del tutto perduto: rimpianto, dolcezza struggente, passione ardente, malinconie sopite.
Tema caro ai romantici, perché il ricordo riannoda i fili col passato, con la storia, radicando un’identità, un’appartenenza a un luogo, a una terra, ai suoi umori e alle sue tradizioni.
Ma il ricordare può diventare una trappola mortale, se il passato non viene integrato al presente, se non si riesce a dare un senso al susseguirsi degli eventi, se lo sguardo rimane fissato all’indietro.
E la sintesi di ricordi della lettura e rilettura della Divina Commedia sono i motivi ispiratori della Fantasia quasi Sonata Dopo una lettura di Dante.
Tre libri Franz Liszt portava sempre con se: il suo breviario, il Faust di Goethe, la Divina Commedia di Dante. Tutto il suo pensiero e la sua opera sono influenzate e colorate da queste continue letture. Il conflitto e la lotta tra bene e male, la caduta nelle tenebri più oscure, da un lato, e dall’altro, l’aspirazione all’ascesi, alla luce, costituiscono la costante della sua vita di uomo e di artista. Le passioni terrene e umane, vissute intensamente e senza risparmio alcuno, con i loro tormenti, “i peccati” dell’uomo, il dolore e la colpa hanno come contr’altare l’aspirazione alla purificazione, alla redenzione divina. Il diabolico e il divino lottano tra loro in una alternanza continua e senza sosta, che, nel complesso della sua opera, non trovano una soluzione ultima e definitiva.
La Fantasia quasi sonata è parte del secondo dei tre libri denominati “Anni di pellegrinaggio”. Essa trova la sua versione definitiva nel 1849, anche se la sua composizione è probabilmente del 1837, negli anni in cui Liszt visse a Bellagio sul lago di Como con la contessa d’Agoult. Nell’opera è difficile identificare con esattezza quali passi della Commedia dantesca siano rappresentati. In realtà, come si diceva, essa è frutto dell’ispirazione di una lettura continua e personale di Dante e ne è il riflesso interiore e psicologico.
Ciò nonostante, possiamo immaginare di trovarci all’inizio del viaggio dantesco:
quella caduta del tema iniziale ad intervalli di tritono è espressione simbolica musicale dello scendere nell’inferno, al quale si contrappone immediatamente il disperato tentativo di risalire a fatica semitono per semitono: è il resistere di fronte al baratro? (pag.32-33)
Ma il baratro è lì e si entra nella cupezza spaventosa dell’inferno col tema cromatico in ottave ribattute richiamate dal ribattuto degli accordi al basso in tempo Presto, agitato assai e “lamentoso”: “Quivi sospiri, pianti e alti guai risonavan per l'aere sanza stelle, per ch'io al cominciar ne lagrimai”. (pag. 34-37)
La sezione centrale, “Andante quasi improvvisato”, dolcissimo e con intimo sentimento, è forse quella pietas che prova Dante di fronte al destino dei dannati? E qui potremmo trovarci nel canto V, quello di Paolo e Francesca, dove il tema cromatico iniziale, da impetuoso e tragico, si trasforma in compassionevole e lagrimoso, fino al dolcissimo con amore. E’ quell’amore che arriva come una tentazione diabolica, travestito e ammaliante come il “canto delle sirene”? Che poi procede affrettando…ed appassionato per culminare in un vortice danzante sempre accelerando via via verso quella perorazione che grida la sua disperata passione? (pag. 40-44)
Si procede così ridiscendendo sommessamente, in un clima di incerta attesa: il tremolando del registro centrale e la parte melodica che nel basso tenta brevi risalite contrapposte da accennate risposte del tritono diabolico che fluttuano nel registro medio, aprono la strada al ritorno del tema iniziale, del quale resta il ritmo, mentre il cromatismo lascia il posto alle consonanze di quinta. Ma l’ascesa non è lineare, è molto tortuosa e tormentata: una lotta aspra e titanica per uscire dal buio infernale che culmina nel saliscendi in ottave fortissimo e con strepito, fino allo stremo delle forze e al conseguente abbandono. Ed è proprio cedendo che comincia a intravedersi una fioca luce negli accordi che la mano sinistra rintocca incrociandosi con la destra che placa gradualmente il tumulto (pag. 44-50).
Ora resta come il ricordo nel profondo, un accenno dello strazio visto e vissuto: il tema cromatico riappare lentamente su un pedale di dominante che pare sospendere il tempo. (pag. 50-51). E qui, come in un lento risveglio dal torpore, un tremolio fiochissimo (di stelle?) appare in lontanza.
Da qui, Liszt trasforma i temi creando un finale grandioso, in un crescendo di tempi (dall’Allegro all’Allegro vivace, al Presto danzante) e di sonorità: trionfo del bene sulle forze del male?
Mettersi in cammino, lasciando i luoghi certi e familiari, senza avere una meta prefissata e precisa era una consuetudine molto diffusa nella gioventù, nelle terre di lingua tedesca. Cosa spingesse a questo andare girovagando è da ricercarsi nella necessità di un cambiamento, di un allontanamento, di uno sradicamento dal proprio habitat, alla ricerca dell’ignoto, alla ricerca di un senso nuovo dentro e fuori da sé. Il viandante è colui che viaggia senza conoscere il suo approdo e che cerca in questo andare il senso stesso del suo viaggio. Così ogni luogo, ogni paesaggio, ogni incontro diventa l’occasione di una scoperta di una nuova e fin’ora sconosciuta parte di se stesso. L’incontro con l’altro, col diverso, diventa allora un rispecchiarsi, un “come avrei potuto essere se…”. Ma tutto questo comporta anche una perdita dei riferimenti abituali e l’adattamento ad una nuova visione del mondo. “Dallo scarto tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere, tra ciò che si vive e ciò che si desidera, nasce la spinta a uscire fuori da se” (Carotenuto, 1998, 77). E comporta ancora il mettere in gioco la propria identità. Il cambiamento di luogo, di abitudini, di consuetudini, ridefinisce di volta in volta la propria identità, che assume molteplici aspetti ad ogni nuovo incontro, ad ogni nuovo rispecchiarsi, ricomponendo un’immagine di sé caleidoscopica e variegata, come nell’assurdo pirandelliano di Uno, nessuno e centomila, “ dove l’uomo si ritrova smarrito tra le sue mille metamorfosi, senza la possibilità di fermare la propria immagine nella certezza del < tu sei questo>”. E nel riconoscersi altro da sé, c’è anche l’irrimediabile confronto con la dolorosa esperienza della perdita, poiché “qualsiasi novità vive del sacrificio di ciò che è assente e perduto alle nostre spalle” (idem, 77).
Queste considerazioni aprono possibili chiavi di lettura e d’interpretazione della Wander-fantasie di Schubert, musicista in cui la figura del viandante è spesso presente nelle sue composizioni. Il “viandante” è un lied, su testo di Schmitd von Lubeck, ma ancora “Il viandante alla luna”, “Girovagare è la gioia del mugnaio”, L’amore ama girovagare dall’uno all’altro”, il Wanderers Nachtlied (Canto notturno del viandante). La Winterreise (Viaggio d’inverno), ciclo di Lied, è un’intera peregrinazione.
In Schubert, la figura del viandante è “strana, spesso inquietante, mistica”, dice il pianista e maestro Jörg Demus, in una pregevole lettura della Fantasia op.15.
Egli rileva come il suo inizio sia pieno di “Mut” (coraggio), nella tonalità di Do maggiore, così “aperta, bianca, raggiante”, centrale fra le tonalità dei bemolli (più oscure e ombrose) e le tonalità dei diesis, “che irradiano luce”. Ed è proprio il gioco tra le tonalità esplorate da Schubert in quest’opera che costituisce una delle novità più importanti e nuove nella storia della musica: la “forma ciclica”. Da due sole cellule ritmiche nascono tutti i temi che attraversano tutti e quattro i movimenti della Fantasia, trasformandosi e assumendo connotazioni e valenze espressive sempre diverse, generando nel suo complesso una imponente e gigantesca variazione: il “dattilo” prima, marcato, pesante, anche tragico e un poco “demoniaco” come nell’Allegretto della Settima di Beethoven (dove è una sorta di Marcia funebre), e “l’anapesto”, suo speculare contrario, nei temi “che devono tranquillizzare, indurre, amore, amicizia o semplicemente calma”.
Riguardo alle tonalità, Schubert sceglie le “medianti”: dal Do maggiore del primo tema, alla sua trasformazione in Mi maggiore, al secondo tema in Mi bemolle maggiore. Nell’Adagio seguente, il Do diesis minore (solo un semitono sopra!) trasforma il tema in desolante e doloroso e pare ricordare gli ultimi versi del lied “Il viandante”: “Il sole qui mi sembra freddo, i fiori appassiscono, la vita invecchia e ciò che dicono, suono vuoto; io sono uno straniero dappertutto”. E subito il Mi maggiore rischiara il clima e riporta al “profumo di tiglio della Winterreise”. Ma il cielo ridiventa nuovamente cupo e l’apparire del tema del viandante è mesto, malinconico; presto si addenseranno le nuvole e la piaggia leggera diventerà tempesta, con fulmini e tuoni, il cui fragore si stempererà mentre la melodia suona sconsolatamete “Un sussurro di spiriti mi risponde: Là dove tu non sei, là è la felicità”. Lo Scherzo, in La bemolle maggiore (terza sopra il Mi di prima) irrompe senza soluzione di continuità in un valzer in tempo Presto, un valzer viennese che “deve infondere gioia di vivere e serena leggerezza. Ma come trovarla dopo gli abissi toccati alla fine dell’Adagio”? E allora il ritmo dattilo, questa volta puntato, fa del valzer una musica febbrile, un po’ demoniaca e nel Trio il tema suona come una reiterata domanda che sa già qual è l’amara risposta: “Dimmi, ruscello: sono perduto? Ci potrà mai essere ancora felicità per me?”. Nel Finale, Schubert chiude il “cerchio”. Ritorna il Do maggiore (dal La bemolle dello Scherzo) col tema iniziale in un fugato, che col suo aggiungere graduale delle voci sembra far diventare corale quello che era stato finora solitario. Come se alla solitudine della voce del viandante ora si aggregassero altre voci in un crescendo “in cui potremmo sentire le parole lapidarie “Noi che camminiamo e girovaghiamo”…
Ma nella storia della cultura occidentale, il viaggiatore per eccellenza è stato Ulisse.
Sappiamo come Dante Alighieri, nella Divina Commedia, concluda l’Odissea di Omero con l’inabissarsi della nave di Ulisse e dei suoi compagni, senza nessun ritorno ad Itaca.
Eppure esistono altre versioni dell’Odissea, il cui epilogo è molto diverso, anzi opposto.
La vicenda di Ulisse, la sua Odissea, i suoi “mille patimenti”, come ben 59 volte li chiama Omero, hanno un significato e un senso molto più vasto e universale. Dante si ferma al primo Ulisse: l’ingannatore, il guerriero, il violento, il superbo, il ladro. Ma c’è un altro Ulisse: quello che di volta in volta, incontrando i mostri esterni (Polifemo, Scilla, Cariddi, i Lestrigoni, i Proci, Poseidone) , in verità, incontra i suoi mostri interni (la hybris, l’ira, l’odio, la volontà omicida e suicida, l’avidità, l’invidia, l’orgoglio, la superbia, ecc.) e tappa dopo tappa, accettando la propria “sorte”, la propria verità interna profonda, riesce a trasformarsi, decidendo di accettare il dolore delle prove fino in fondo, non come una punizione degli dèi, ma come una necessità interiore imprescindibile. Questi mostri interni, questi “veleni”, inquinano la vita di ogni uomo, ne segnano più o meno il sentiero e ne offuscano la bellezza. Per questo Ulisse è non solo archetipo del viaggiatore, ma archetipo di ogni uomo, se ogni uomo lo prende come modello e riferimento e l’Odissea un libro “sapienziale” per eccellenza, così com’è stato sempre ritenuto fin dall’antichità.
E l’Odissea è anche la lunga e travagliata metafora dell’incontro vero, profondo e definitivo di un uomo e di una donna, per un progetto che oltrepassa i limiti umani, fino a realizzare quella “concordia gloriosa” che Ulisse augura a Nausicaa, appena dopo l’approdo all’Isola dei Feaci e dopo la tremenda tempesta passata in mare. “Se Ulisse si salva è perché la ninfa Ino e Atena (la saggezza interna) accorrono in suo aiuto e lo ispirano nell’animo. Cosa gli ispirano? … Che se non abbandona la hybris per vestirsi di umiltà, nessuno lo accoglierà né gli darà riparo. Ulisse ascolta e capisce. La sua preghiera al fiume (alla Vita) è il segno evidente del suo cambiamento…
Quante volte nella vita ci troviamo nell’angoscia più cupa e nell’oscurità più fitta così come Ulisse in preda alla tempesta e non è assolutamente prevedibile quello che accadrà il giorno dopo: l’incontro con Nausicaa prima e poi con i suoi genitori e i prìncipi Feaci e tutti lo riempiranno di doni e lo riporteranno alla meta sospirata. Bisogna sapersi affidare alla vita anche quando tutto sembra perduto”. (A. Mercurio, Ipotesi su Ulisse, p.149).