Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare
DIREZIONE PER LA PROTEZIONE DELLA NATURA
ENTE PARCO NAZIONALE DELLA SILA
Ministero per i Beni e le Attività Culturali
DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI
E PAESAGGISTICI DELLA CALABRIA
SOPRINTENDENZA PER I BENI STORICI,
ARTISTICI ED ETNOANTROPOLOGICI DELLA CALABRIA
MOSTRA
Sila Dono Sovrano
Una mostra fotografica e un libro per celebrare la Sila
Cosenza – Palazzo Arnone
26 febbraio 2011 - 27 marzo 2011
Fino al 27 marzo prossimo a Cosenza, Palazzo Arnone, sarà possibile visitare la mostra fotografica Sila Dono Sovrano.
L’evento espositivo racconta, attraverso gli scatti di grandi maestri dell’obiettivo, bellezza, fascino e suggestione di una realtà naturalistica tra le più significative
d’Italia e d’Europa: la Sila.
Antonio Manta, Tony Atheron, Paola Binante, Francesco Granelli, Paolo Pagni e Pietro Vallone hanno dato vita a un reportage - circa 90 opere - che della Sila presenta la forza della natura, luoghi, ambienti, strumenti, scorci di paesi, oggetti che identificano questo straordinario lembo di Calabria, cuore verde del Mediterraneo.
Un tour per i luoghi dell’altopiano silano, durato circa un anno, che ha coinvolto gli artisti in un’avventura umana e culturale ispirando loro riflessioni, tradotte poi in immagini, sul territorio e soprattutto sulla gente dell’antica selva brutia. Le opere interpretate in chiave personalissima da ciascun autore esprimono la grande forza evocativa della fotografia che assume la dimensione di opera d’arte e insieme quella di documento umano e sociale. Sila Dono Sovrano è anche un progetto editoriale, a cura di Elena Paloscia, che presenta tutte le opere in esposizione.
La mostra è stata inaugurata a Cosenza, Palazzo Arnone, ieri sabato 26 febbraio.
Sono intervenuti: Wanda Ferro, presidente Provincia Catanzaro; Gerardo Mario Oliverio, presidente Provincia Cosenza; Stanislao Francesco Zurlo, presidente Provincia Crotone; Salvatore Perugini, sindaco di Cosenza; Francesco Prosperetti, direttore regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Calabria; Sonia Ferrari, presidente Ente Parco Nazionale della Sila; Fabio De Chirico, soprintendente per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici della Calabria e Elena Paloscia, storico e critico d’arte.
Erano presenti gli artisti. Nel corso della serata si è tenuto inoltre un concerto dell’Umberto Napolitano Trio featuring Tiziana Grezzi, a cura del Peperoncino Jazz Festival.
A cura di Fabio De Chirico, Sonia Ferrari e Antonio Manta, la mostra si avvale del patrocinio del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare e del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, della Regione Calabria, delle Province di Catanzaro, Cosenza e Crotone e di Federparchi/Europarc.
La mostra rimarrà aperta al pubblico tutti i giorni dalle ore 10.00 alle 18.00, escluso lunedì.
La mostra rimarrà aperta al pubblico tutti i giorni dalle ore 10.00 alle 18.00, escluso lunedì.
Atheron |
Binante |
Granelli |
Manta |
Pagni |
Vallone |
GLI ARTISTI E LE OPERE
Testi di Elena Paloscia tratti da
Sila Dono Sovrano
TONY ATHERON
Tony Atheron, autodidatta, ha cominciato a fotografare in giovanissima età dopo aver ricevuto in regalo la sua prima macchina fotografica. Ormai esperto fotografo, stampa in bianco e nero nella propria camera oscura. Recentemente si è dedicato alla fotografia digitale gestendo sempre perso- nalmente tutte le fasi del processo, dallo scatto alla stampa. Suo interesse prevalente è nel paesaggio, di cui interpreta metaforicamente le interazioni con l’uomo e le trasformazioni nella sua terra. Le sue fotografie sono pubblicate in riviste di architettura a tiratura nazionale. Ha partecipato a varie mostre collettive.
RICORDI ELLENICI
L’acqua è una delle glorie della Sila: ovunque sgorga in freschi ruscelletti fra i ciottoli e scorre giù per le pendici per unirsi ai grandi torrenti che vanno verso le terre costiere, malsane e desolate della Magna Grecia...Uno dei fiumi maggiori è il Neto , il classico Nehaithos cantato da Teocrito che sfocia in mare a nord di Crotone: S. Giovanni sovrasta le sue acque furibonde e aiutandosi un poco con l’immaginazione è possibile seguirne l’intero corso dalla cima del Pettina Scura.
Norman Douglas, 1915
Norman Douglas, 1915
Con queste parole al principio del secolo scorso il viaggiatore scozzese Norman Douglas aveva descritto una delle peculiarità fondamentali del territorio silano, l’abbondanza di acque e al tempo stesso nel descrivere il corso del fiume Neto parla di “acque furibonde”, di quelle stesse acque che portano energia, vita, mistero e sono state per i greci vie d’accesso in un territorio incognito, ancora vergine. Proprio a quei pionieri provenienti dall’“Ellade luminosa”, di cui restano scarse vestigia nelle sepolture rinvenute nella valle del Neto, rende idealmente omaggio il lavoro di Tony Atheron, ispirandosi a coloro che non si sono lasciati spaventare dall’ignoto, da quanto avrebbero trovato una volta risalito il fiume. Percorrendo a ritroso l’antica migrazione, a partire dalle sorgenti e scendendo fino al mare, il fotografo evoca la leggenda delle donne troiane, prigioniere degli Achei, che stanche di girovagare diedero fuoco alle navi per porre fine al viaggio ed alimenta l’immaginario svelando vedute e scorci d’intensa poesia. Il lavoro di Atheron si snoda così in un percorso della memoria in cui una patina d’antico rende tutto più sfumato e lontano. Nel fluire delle acque, negli scorci dei paesaggi che il fiume Neto solca attraverso luoghi impervi o distese pianeggianti ritroviamo allora le radici di un popolo, forse di tutti i popoli. L’acqua è elemento primario, non a caso il fotografo utilizza la tecnica del “fuoco selettivo”, ma lo scenario che la circonda mostra indizi di un passaggio umano. La felce, pianta primitiva, sembra qui rappresentare il senso della continuità, della storia. Seguendo il percorso attraverso immagini ricche di prospettive audaci e coinvolgenti ritroviamo nel tempo presente una costante della storia della Sila, i tronchi d’albero tagliati. Sono un particolare eloquente, evocano la spoliazione dei boschi, il loro sfruttamento sin dall’antichità per il legname e per la pece, la linfa preziosa di cui i pini silani erano prodighi. Un sottile filo rosso conduce inevitabilmente alla storia più recente che ha visto la distruzione delle foreste nel corso dell’ultima guerra. Dietro questa immagine si legge tuttavia anche un’altra storia, quella dell’uomo, della sua relazione con il bosco, con la vegetazione spontanea, con l’albero che contende il territorio all’uomo e che sottrae terreno alle coltivazioni, alle possibilità di sussistenza. Eppure sono ancora loro, gli alberi e il fiume, i protagonisti del paesaggio, oggi che la cultura muta rapidamente in una direzione opposta, in cui la sinergia tra uomo e ambiente appare prioritaria. Per questa ragione il lavoro di Tony Atheron sembra costituire un lirico ed intenso compendio di storia di una civiltà: qui l’uomo non appare ma lascia indelebili le sue tracce nonostante la ferma determinazione della natura a riappropriarsi del territorio, come già aveva sottolineato l’umanista Giovanni Pontano, scrivendo “il rinnovellarsi spontaneo della selva cancellava le devastazioni e nascondeva le vicende umane addensatesi sulla plurimillenaria foresta”.
Paola Binante è nata a Roma, vive e lavora a Bologna. Fotografa professionista, è docente di Fotografia presso l’Università degli Studi ISIA (Istituto Superiore per le Industrie Artistiche) di Urbino. Dal 1984 si occupa di Fotografia d’Arte; a partire dal 2000 ha inizio la sua ricerca artistica che si sviluppa in due direzioni: sperimentale e concettuale. Ha esposto in Italia e all’estero in occasione di importanti mostre personali e collettive tra cui: la XIV Quadriennale di Roma, 2004; Fotografia Festival Internazionale di Roma (diverse edizioni); “Smack” Brewery Project Los Angeles-USA, 2005; “Natura e Metamorfosi”, Shanghai e Pechino, 2006; “Homage à Marco Bianco” Galleria In Camera, Monaco Monte Carlo, 2008; “Ordinary China”, Galleria Anna D’Ascanio, Roma, 2008; “Experimenta-Collezione Farnesina Giovani”, Ministero degli Affari Esteri, Roma (2008,2010); Lucca Fotofestival, Lucca, 2010. Le sue fotografie e i suoi testi sono presenti in prestigiosi cataloghi d’arte.
La cultura è una struttura di significati trasmessa storicamente, incarnati in simboli, un sistema di concezioni ereditate espresse in forme simboliche per mezzo di cui gli uomini comunicano, perpetuano e sviluppano la loro conoscenza e i loro atteggiamenti verso la vita.
Clifford Geertz, 1997
Scoprire una terra attraverso le sue testimonianze materiali è l’impegno di Paola Binante che da anni lavora come fotografa ed artista alla ricerca di quelle tracce che legano il passato al presente. Scegliendo “oggetti di uso comune, che partecipano della vita quotidiana di gran parte delle persone” ne sottolinea non soltanto la valenza funzionale, ma anche il “significato simbolico condiviso”. In questo lavoro sulla Sila sceglie il titolo “L’oro dei briganti” a partire da una suggestione, letteraria, storica e, perché no, leggendaria per indagare una natura, che per gli abitanti della Sila è stata madre e matrigna al tempo stesso. La Sila con le sue foreste ha accolto questi esseri entrati nel mito e li ha nascosti nei recessi più inaccessibili, ma talvolta li ha traditi riconsegnandoli ad un mondo governato da quei soprusi da cui la maggior parte tentava di fuggire. Proprio in queste esistenze in fuga la storia riconosce gli artefici degli insediamenti e dei borghi più remoti della Sila sorti in territori difficili per il clima e per la viabilità. Eppure, quelle popolazioni hanno saputo affrontare un territorio ostile rendendolo fecondo, cogliendone i frutti spontanei, lavorando con costanza ed impegno per la sopravvivenza. La testimonianza di tutto questo è ancora oggi sotto i nostri occhi, è l’interazione dell’uomo con la natura, il suo ingegno, quella stessa “operosità” che, superato l’abusato mito del “buon selvaggio”, ammiravano e ricordavano i viaggiatori stranieri nei loro scritti sulla Calabria e sulla Sila. La lettura di un luogo “attraverso il racconto ideale delle sue origini trasposto al quotidiano” costituisce, nel lavoro di Paola Binante, il filo conduttore che lega il paese di Longobucco (CS), nella parte nord della Sila grande, a Sersale (CZ), inizio del Parco a sud della Sila piccola. È proprio questo che la fotografa sottolinea, la necessità di conservare memoria di ciò che oggi appare scontato, di quegli oggetti con cui spesso si ritrova il contatto, e si scopre il senso solo nelle sale dei musei demoetnoantropologici. Per tale ragione la ricerca che sottende la fase iniziale del suo progetto ha un ruolo determinante. Diviene una sorta di paradigma indiziario attraverso l’individuazione di elementi noti e al tempo stesso sconosciuti ai più nei valori intrinseci di cui sono portatori. Così, ad esempio, i volti in pietra e le maschere apotropaiche inclusi nelle mura di un antico palazzo nobiliare di Longobucco richiamano nell’immaginario della Binante i briganti, ma non solo: queste decorazioni evocano anche l’antica arte di scolpire la pietra. Ecco allora, è proprio lì, sotto gli occhi di tutti, l’oro dei briganti: il tesoro che si crede nascosto da qualche parte è la capacità umana di trasformare ciò che ci circonda, di creare oggetti d’uso comune, di saper utilizzare i prodotti del bosco, come i funghi e le castagne, della pastorizia, creando il “delicato formaggio” di cui già parlava Cassiodoro, e dell’agricoltura, come le patate, le olive o il pane. L’eco delle “bottegucce che espongono i loro prodotti in guisa di nature morte” di cui parla Piovene durante il suo viaggio in Italia nel 1957, nel lavoro di Paola Binante si trasfigura in concetto: l’idea di continuità tra passato e presente che sottende in questi luoghi ad ogni gesto e ad ogni attività quotidiana nel solco di una tradizione radicata. La fotografa rende esplicito questo concetto e va alla fonte, senza sentimentalismi, senza ovvietà, con rigore, creando immagini nitide, fotografate su fondi neutri come un vecchio lenzuolo di lino. Questi scatti restituiscono ad oggetti e prodotti semplici, emblemi di una vitalità inesauribile, un’ideale collocazione spazio-temporale inserendoli in un flusso che non ha tempo. Assumono quindi essi stessi un valore apotropaico che contribuisce a scongiurare, almeno in parte, ciò che l’antropologo Ernesto de Martino aveva definito “Apocalisse culturale”.
FRANCESCO GRANELLI
Francesco Granelli è nato e vive a Montevarchi (Arezzo).Verso la metà degli anni Settanta si è av- vicinato alla fotografia spinto dal desiderio di documentare i propri viaggi. Nel 1978 partecipa ad un seminario organizzato dalla Kodak con il maestro Franco Fontana; da questa esperienza nasce una profonda passione che dà vita ad una personale ricerca fotografica orientata verso il reportage e la fotografia di architettura. Il suo lavoro sembra confermare l’idea proustiana che “il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi”. Nei suoi reportage ritrae le metropoli creando isolate geometrie che riproducono una sorta di ricomposizione dello spazio, non una fotografia della realtà ma una rappresentazione del reale. Nel 2005 pubblica il libro fotografico “Images from global village”. Diverse le partecipazioni ad eventi fotografici, tra cui numerose mostre personali e collettive in Italia ed all’estero.
La strada sale per trecento metri circa in un nastro serpeggiante di polvere bianca e il sonnolento procedere verso l’alto sotto l’azzurro incendiato di sole tra il canto delle cicale, sembrava eterno. Non si scorgeva anima viva; il silenzio era caduto sul mondo e il grande Pan regnava. Infine entrammo in un paesetto dove, ancora una volta trovammo una quiete mortale. Era l’ora del sonnellino pomeridiano.
Norman Douglas, 1915
Così l’autore di Old Calabria si esprime in occasione del suo arrivo a Spezzano. Il silenzio, lo stesso che si avverte nei boschi e nelle grandi distese innevate, pervade ancora oggi anche i paesi ritratti nelle fotografie di Francesco Granelli. Palazzi, case, scorci, balconi e finestre disegnano geometrie che talvolta sfiorano l’astrazione. Il nuovo e il vecchio convivono, la pietra lascia spazio al cemento, l’intonaco, colorato talvolta con colori decisi e squillanti, sembra ribadire quel senso di proprietà che sin dai tempi antichi sceglieva il colore come nota distintiva generando, per dirla con Piovene, “Case festose che variano da luogo a luogo secondo il clima in raggruppamenti di tinta vivace diversa”. Addentrandosi nei vicoli e nelle strade di questi luoghi emerge un tratto comune: una presenza umana remota, solo suggerita, che è possibile cogliere solo osservando il battente della finestra aperta, la tendina scostata o i panni stesi. Si fa strada lo spettro dell’abbandono e quei pochi indizi riconducono ai tempi in cui la soglia, come la finestra, erano diaframmi tra l’interno e l’esterno e consentivano di vedere senza essere visti. L’idea di paese come “luogo ove si dispiega sommandosi il potere rassicurante della casa”, spazio in cui l’uomo, come spiega Faeta, strappando all’ignoto una sua parte e trasformandola in noto è riuscito a “trasformare uno spazio ostile minaccioso in spazio propizio e protettivo attraverso un’immensa opera di domesticazione”, sembra qui lasciare il passo a profonde mutazioni sociali che vedono l’emigrazione come una delle risposte più comuni al disagio. Ormai lontani i tempi in cui i viaggiatori stranieri non mancavano di rimarcare una povertà ed un degrado attribuiti alle continue dominazioni subite dalle genti della Sila, e passato quasi mezzo secolo dagli accurati resoconti socioeconomici di Piovene sulla riforma agraria del dopoguerra, in cui scrive “Si vede oggi nella Sila il nuovo sovrapporsi al vecchio col distacco di una pellicola fotografata due volte in paesi diversi...”, si avvertono ancora nelle contraddizioni stridenti tra i cortili fatiscenti e gli scorci vivaci o i palazzi tinteggiati di nuovo gli echi di quella povertà. Se un tempo la trascuratezza si attribuiva, quasi come una responsabilità, ad una popolazione non avvezza a possedere qualcosa di proprio da curare, “manca qui il senso della casa come punto di riferimento topografico fisso e preesistente...” scriveva Norman Douglas nel 1915, oggi le contraddizioni sembrerebbero appartenere al ritardo di una storia politica, sociale, economica e culturale. Eppure i segni del cambiamento si intravedono negli edifici restaurati, ad esempio: questi rappresentano il tentativo restituire integrità ed identità a luoghi pregni di ricchezza e di storia ma di difficile gestione in quanto espressione, secondo Faeta, di un elevato grado di “marginalità, precarietà, e frantumazione del territorio”. Così si cerca di affrontare il nomadismo atavico di cui sono gravati quei “paesitti ferrigni che sembrano vegliare con occhiuta diffidenza” descritti da Ulderico Tegani e forse è per questo che nei ritratti di paese di Francesco Granelli si respira ancora oggi un’atmosfera metafisica, quasi sospesa.
ANTONIO MANTA
Antonio Manta nasce ad Empoli nel 1966, vive e lavora a Pian di Scò (Arezzo). Fotografo professionista, è co-titolare della “Alternative Graphics” ed esperto dell’immagine e stampa Fine Art digitale. Tiene corsi e workshop sul territorio Nazionale ed Europeo (Arles, Lione, Parigi) sull’uso della post produzione digitale e la stampa Fine Art. Svolge attività di ricerca e divulgazione fotografica progettando e curando mostre e pubblicazioni. Nel Marzo 2010 è stato l’organizzatore ed il curatore della prima edizione del “Fabriano Photo Festival”. Le sue fotografie sono pubblicate su riviste di settore come “Gente di Fotografia” e “Foto.it”, e su cataloghi di mostre e libri tra cui: “Enfants du Togo”, 2004, “Anime e Pietra”, 2005 “Prigionieri nel deserto”; 2006, “Uganda Contro”, 2007. Come Fotoreporter ha lavorato in Marocco, Tunisia, Togo, Uganda, Laos, Israele, Cambogia, Vietnam e Armenia. Ha esposto in mostre collettive e personali ed i suoi lavori sono conservati presso Len Levine di New York e in collezioni private di Lione e Parigi.
MONDO NUOVO E SINGOLARE
Il paesaggio della Sila Grande merita davvero l’aggettivo di “grandioso”: alle morbide ondulazioni delle dorsali ricoperte di fitte pinete e faggete si alternano valli quaternarie di origine lacustre, in parte colmate da laghi artificiali ...e grandi praterie... Forse pochi punti della montagna italiana offrono un così spettacolosamente rapido mutamento di natura e di paesaggio.
Giuseppe Isnardi, 1927
Giuseppe Isnardi, 1927
Scoprire la Sila attraverso lo sguardo di Antonio Manta può essere un’avventura che va ben oltre la dimensione estetica per condurci in un territorio in cui sensazione ed emozione si incontrano, ce- mentandosi reciprocamente in un breve ma intenso arco temporale. Non a caso il fotografo sceglie di utilizzare la polaroid, che consente uno sviluppo immediato dell’immagine. Il dominio completo della tecnica, la conoscenza delle mescolanze cromatiche, e delle loro mutazioni negli istanti che seguono lo scatto, gli consente di intervenire, prima ancora che l’immagine si formi del tutto, con segni ed incisioni con cui riesce a trasferire e a fissare le emozioni provate di fronte a questi luoghi. Andare oltre lo scatto fotografico attraverso il gesto che assume una valenza catartica è il suo intento. Lo sguardo è ampio, d’insieme, solo talvolta si sofferma sui dettagli. Le intricate selve delle foreste, i fiumi e i grandi laghi artificiali, i pascoli vasti e sereni già apprezzati e ricordati dal poeta latino Virgilio, gli scorci paesaggistici colti attraverso le stagioni, si trasformano in una sorta di tela grezza, un supporto su cui intervenire immediatamente ogni volta, in ogni nuova circostanza, con una sensibilità differente. Questa gestualità si concretizza in un segno grafico che ha una matrice al contempo arcaica e contemporanea e ben sintetizza la modalità di percepire un territorio che ha in sé tracce profonde del passato. Questa sorta di incisione è il punto di riferimento per il successivo trattamento dell’immagine in cui spesso, in omaggio anche alla figura di Nino Migliori, sceglie di utilizzare il fondo oro proprio al fine di far emergere il segno. Ne risulta un lavoro sorprendente per la grande sensibilità pittorica. Grazie alle particolari inquadrature in cui non perde il senso della profondità, si ha l’impressione di osservare i dipinti di quei maestri italiani che nella seconda metà dell’Ottocento diedero impulso a quella timida e insieme rivoluzionaria riscoperta del segno compendiario e della luce. I paesaggi di straordinaria bellezza della Sila rivivono nelle immagini di Antonio Manta confermando l’impressione, che fu di Pio- vene, “che la Sila consente la vita umana organizzata equilibrando in essa l’agricoltura, il bosco, il pascolo”.
Questi scatti ci restituiscono quindi non solo l’immagine ma, soprattutto, quella stratificazione sensoriale che il fotografo attraverso un procedimento complesso e con un intenso coinvolgimento ha voluto catturare.
PAOLO PAGNI
Paolo Pagni è nato a Montevarchi (Arezzo) nel 1953. Ha iniziato a interessarsi alla fotografia in giovane età, sulle orme del padre, fotoamatore evoluto, dal quale ha appreso i primi rudimenti di tecnica fotografica e di sviluppo del BW in camera oscura. Ha successivamente avuto modo di do- cumentare con i suoi scatti i numerosi viaggi che ha effettuato in giro per il mondo. La sua attività fotografica ha di recente avuto un nuovo impulso in virtù dell’adozione della fotografia digitale e della Polaroid, cui si dedica dal 2003 con l’intento di cogliere ed esprimere con l’immagine le sen- sazioni suscitate dal contatto con persone ed ambienti diversi. Ha partecipato a numerose mostre collettive e personali in varie città italiane tra cui Catania, Terranuova Bracciolini, Firenze.
UNA FANTASIA DEL NORD ESEGUITA CON IL RIGOGLIO MERIDIONALE
La Sila è un paradosso paesaggistico, e ci riporta a certe composizioni surreali, che ottengono il loro fascino accostando tra loro oggetti eterogenei e disambientati. Sembra di essere caduti in un angolo della Scandinavia, con i pini silani piu’ alti e piu’ snelli degli abeti... Ed in effetti la peculiare mor- fologia della Sila, unita al suo principale ornamento – le foreste di conifere e soprattutto quelle di Pino Laricio – rende questo massiccio un luogo del tutto originale nel contesto della regione mediterranea.
Guido Piovene, 1963
La ricerca sperimentale e la qualità analitica che caratterizzano il lavori di Paolo Pagni sembra essere in perfetta sintonia con l’idea di eterogeneo e disambientato, cui fa riferimento Guido Piovene. Pur partendo da una visione d’insieme infatti il suo progetto fotografico si concentra sul dettaglio, per lo più naturale, che diventa oggetto di un’attenzione selettiva. La polaroid, come per Antonio Manta, è il mezzo che più agevolmente consente di rendere visibile un’idea, o di catturare una sensazione in corso d’opera. La realtà fotografata, infatti, sembra assumere un ruolo di secondo piano, le forme ed i colori emergono prepotentemente, il procedimento e la possibilità di verifica puntuale di un’idea hanno il sopravvento. L’immagine di partenza perde progressivamente la propria nitidezza per subire diversi tipi di manipolazione: talvolta è una sorta di pennellata, altre un sottile graffio, altre ancora una sovrapposizione o una sfocatura. Se nelle immagini più riconoscibili il segno simile ad una pennellata non altera la forma originale ma genera una dicotomia percettiva, queste attestano tuttavia l’intenzione del fotografo di apporre una propria sigla personale, come una sorta di firma che rende tangibile ed unica la sensazione provata di fronte ad uno spettacolo naturale. Egli ha la possibilità, inoltre, di fissare l’impressione complessiva sintetizzandola nella tipologia di intervento che sceglie di volta in volta, creando un album di ricordi personali non vincolati ad una rappresentazione statica, ma ad un’immagine che, proprio grazie al procedimento cui è stata sottoposta, diventa unica depositaria di quel frammento di memoria. Nell’osservare queste polaroid si avvia un meccanismo percettivo che porta talvolta al completamento, altre volte procede per sottrazione, altre ancora crea disorientamento spaziale e temporale. In ognuno di questi casi chi guarda è indotto ad interpretare cercando di intuire quale gesto, quale idea, quale soggetto sia alla radice della fotografia. Ciò avviene in special modo osservando quei lavori che volgono in astratto, in cui il colore ed il segno prevalgono. Talvolta la gestualità è dirompente, soverchia l’immagine fino a negarla, altre volte, invece, il fotografo sembra voglia lambirne la superficie con delicatezza, sfumando i colori e creando rapporti tonali. Anche se l’intento pittorico non è dichiarato, si intravede in queste fotografie una relazione ideale con la cultura figurativa della tradizione dell’informale, che talvolta assume i tratti surreali nelle deformazioni dei particolari scelti.Niente di più di ciò che la natura fa in Sila si potrebbe dire, tutto dipende dalla disposizione d’animo a percepire ciò che ci circonda in maniera differente, a cogliere le masse cromatiche, le linee verticali e orizzontali che con la luce creano fantasiosi intrecci, o magari i solchi lasciati dall’uomo su di un albero, approfittandone, ad esempio, per porre l’accento su un’attività come quella relativa all’estrazione della pece dai pini che appartiene alla storia.
PIETRO VALLONE
Pietro Vallone è nato a Celico nel cuore della Sila dove vive e lavora. Naturalista per professione dagli anni ‘90, coniuga il suo amore per la natura con la passione per la fotografia. Il rispetto profondo che nutre nei confronti dell’ambiente si coglie nelle sue fotografie che di distinguono per un linguaggio semplice e raffinato. La medesima sensibilità che gli consente di entrare in relazione profonda con i vasti spazi che ama ritrarre si ritrova negli scatti più intimi in cui interpreta la vita vegetale ed animale. Le sue fotografie sono presenti in numerose pubblicazioni del Parco della Sila.
Regna il pino silano, albero libero i cui semi attecchiscono anche se portati dal vento ...esso forma cattedrali arboree dai tronchi regolari e fitti che si prolungano talvolta per qualche chilometro avviluppando anche le cime, e riempiendo perciò la Sila di luoghi segreti.
Guido Piovene, 1957
Sono questi i luoghi segreti citati da Guido Piovene nel suo Viaggio in Italia del 1957 di cui è custode Pietro Vallone. Naturalista e fotografo che lavora per il Corpo Forestale dello Stato presso l’Ente Parco, è colui che ha guidato con professionalità e passione il gruppo di fotografi nei luoghi più reconditi della Sila. Le sue immagini, in cui si coglie la grande varietà del paesaggio silano, sono il risultato di un’approfondita conoscenza del territorio da cui deriva un’intimità straordinariamente intensa. I suoi scatti, seppure di grande qualità estetica, non devono essere considerati come mera documentazione ma come il risultato di un sentire che rivela sintonia e sensibilità nei confronti del mondo che lo circonda. Se il fluire delle stagioni con le metamorfosi più affascinanti costituisce il filo conduttore di queste immagini, ognuna di esse cela in sé la capacità di rivelare aspetti reconditi che appartengono a luoghi spesso inaccessibili ai più. Il fotografo sembra incarnare la storia della relazione dell’abitante della Sila con la natura sin dai tempi più antichi. È il suo occhio che in completa solitudine coglie e restituisce la vastità sconcertante degli spazi, che ne lascia percepire attraverso le sue fotografie il silenzio e il senso di isolamento che ancora è possibile provare in quei luoghi. Eppure come interprete sensibile e moderno non resta sopraffatto da un senso di sublime meraviglia ma si coglie, sia nei panorami ampi in cui lo sguardo si perde, sia negli scorci, una confidenza, una familiarità che sembra invitare alla scoperta, ad addentrarsi seguendo il consiglio di chi sa che questa terra ha ancora molti segreti da svelare e che, come scriveva ancora Piovene : “Per quelli che vi sostano essa tiene in serbo nelle zone più alte misteri boscosi e lacustri che i viaggiatori di passaggio sono costretti ad ignorare”. Così queste immagini si possono leggere sotto il duplice aspetto di una percezione personale ed intima ma possono, al tempo stesso, divenire una guida sentimentale, con le vivide scie di colore, con le distese di neve intatte, con la trasparenza delle acque che scorrono e con il calore che sembra emanare un campo di grano assolato. Confermeranno, per chi si immerge in questi luoghi scoprendone la verità, che questi scenari quasi irreali non sono poi così diversi da quelle “giungle meridionali piene di luminosa bellezza, i loro punti più oscuri essendo rallegrati da un senso di benigno mistero”, di cui parlava Norman Douglas al principio del secolo scorso.
Ente Parco Nazionale della Sila
Presidente: Sonia Ferrari
Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici della Calabria
Soprintendente: Fabio De Chirico
MOSTRA
Sila Dono Sovrano
Una mostra fotografica e un libro per celebrare la Sila
Cosenza – Palazzo Arnone
26 febbraio 2011 - 27 marzo 2011
Uffici stampa:
Ente Parco Nazionale della Sila
Valeria Pellegrini
Tel.: 0984 537109 fax: 0984 537888
E-mail: ufficio.stampa@parcosila.it
Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici della Calabria
Silvio Rubens Vivone – Patrizia Carravetta
Tel.: 0984 795639 fax: 0984 71246 E-mail: sbsae-cal.ufficiostampa@beniculturali.it
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