È l’ultima raccolta del poeta calabrese Giovanni Chiellino.
La presentazione venerdì 13 maggio 2011, ore 19.00
Sala Arancio – XXIV SALONE INTERNAZIONALE DEL LIBRO
Lingotto Fiere, via Nizza 280, Torino
Lingotto Fiere, via Nizza 280, Torino
LA PREFAZIONE DI ERALDO GARELLO
Quest’ultima raccolta di Giovanni Chiellino, meno connotata tematicamente rispetto alle precedenti, che riconoscevano all’interno della loro più profonda struttura quasi una diretta urgenza filosofica, argomentativa e dimostrativa (sempre nell’ambito del vero dettato poetico che non forza mai l’attenzione del lettore, ma procede per successive ed epifaniche dis-velazioni), si palesa a noi progressivamente, di pagina in pagina, mutando registro e quasi scrittura, proponendoci suggestioni, ricordi, illuminazioni, lampi profetici che si rastremano di campata in campata fino a pervenire alla solidificazione di quell’universo di discorso, di quella visione del mondo che da sempre ci affascina nell’avventura poetica del Nostro.
Se in alcune precedenti raccolte (ma soprattutto ne Il volto della memoria, Roma 2000) uno dei nuclei tematici centrali era dato dalla riflessione sulla nozione di tempo, inteso sia agostinianamente come distensio animae, sia bergsonianamente come durata della coscienza e come energetica corrente vitale nella quale ogni momento trapassa nell’altro senza apparente soluzione di continuità (e qui si sentiva il lascito della profonda frequentazione del mai dimenticato Nicola Silvi), in Luce crepuscolare il vissuto viene declinato sul versante della spazialità. E questo sin dalla bellissima lirica d’esordio: Paesaggio per Mara (uno dei tanti paesaggi che ritroviamo nella silloge), laddove all’interno d’un ambiente marino colmato dalle “pareti della nebbia”, e che richiama più certe tele ottocentesche di pittori del Nord Europa, danesi e scandinavi (come alcune angoscianti scene di mare ritratte dagli artisti più cupi della scuola di Skagen) che non il solare e ventoso Jonio, Chiellino subito ci sbilancia con osservazioni di lucreziana memoria. Il Poeta, tranquillamente seduto (immaginiamo) sul litorale, in compagnia della donna amata (“Io seguo i tuoi capelli fra i pianeti / mentre le dita sfiorano il tuo seno”) osserva in lontananza lucerne che “schiene curve mostrano sui remi”; di lì l’interrogativo che solo il Poeta può porsi: “sono uomini che vanno alla deriva / o è la rotta giusta per tornare? / Inseguono approdi / della buona sorte / o cercano nel fondo delle acque / le tracce della vita e della morte?”. In pochi versi, quasi distrattamente esposti, viene racchiusa l’essenza del nostro esserci più profondo giocato sul mare magnum della vita, ed evidenziato dalle intense simbologie del mare stesso e del porto. Il primo – se si dà credito al Curtius che ne fa derivare l’etimologia dal sanscrito maru, che significa deserto, e quindi landa sconfinata, priva di vita e di vegetazione dove l’uomo può facilmente naufragare e soccombere (infatti, la radice mar significa in primis morire) – si pone come termine di paragone dell’esistenza umana, metafora dell’avventura nella quale tutti ci dobbiamo necessariamente buttare se vogliamo conoscere l’essenza del nostro esser-ci all’interno dell’Universo (ci ammoniva Blaise Pascal: vous êtes embarqués, a sottolineare l’impossibilità per l’uomo di sottrarsi alla scommessa del mettersi in gioco), ma anche metafora del mare interno, del mondo delle passioni che ci squassano con l’intensità d’una feroce bufera, ed ancora rappresentazione – secondo una sempre attuale considerazione del monaco medievale Aelredo di Riévaulx – del secolo presente, inteso come distanza che separa l’uomo da Dio.
E poi il porto: il punto d’entrata e d’uscita, la salvezza per chi ritorna dopo essersi sottratto alle innumerevoli insidie del mare, ma anche il punto di partenza per chi quelle insidie per necessità o libera scelta le vuole affrontare; Ulisse che parte ed Ulisse che ritorna; luogo di festa per il naufrago e luogo di lutto per chi ha dovuto soccombere; luogo da cui lucrezianamente (Epicuro insegna!) osservare l’inutile affannarsi dell’uomo ma anche luogo nel quale esistenzialmente non possiamo non farci carico dell’angoscia di chi soffre e muore cercando se stesso.
Per Chiellino, dall’alto della sua saggezza di uomo di mare, la salvezza è più vicina di quanto può apparire, e forse non la vede solo chi non la vuol vedere, tutto compreso di una sorta di vuoto e inutile titanismo: la spazialità (nella silviana dimensione spazio-tempo alla quale accennavamo prima) la si può delimitare con più facilità rispetto alla temporalità, può essere confinata all’interno d’una dimensione familiare, di piccola Heimat o comunità con i suoi costitutivi elementi fondanti; ed allora la bimba Carmen (nipote del Nostro, ma soprattutto simbolo d’una natura umana non ancora contaminata), può aprirsi al lento raccontare del mare, lasciarsi andare al suo leggiadro suono, avvertirne la presenza materna e paterna (se è vero che in origine il mare era la divinità delle divinità: Oceano, il flusso energetico che da sempre circonda il mondo).
Le coordinate gnoseologiche della raccolta di Chiellino trovano un altro punto di inveramento in una straordinaria – per intensità di scrittura e per ricchezza di rimandi culturali – lirica dal titolo La tomba del tuffatore, chiaro riferimento ad uno dei più significativi manufatti dell’epoca aurea della cultura pestana, databile tra il 470 e il 480 a.C. Un giovine si tuffa a volo d’angelo – ed è lo strabiliante tuffo della morte – dalle colonne d’Ercole, da sempre statuaria e stentorea raffigurazione dei limiti delle umane conoscenze ed esperienze, nel grande mare, che in questo caso viene rappresentato in pausa di maccherìa (quasi a svenarne la minacciosità e pericolosità, come atto di indulgente clemenza nei confronti del giovinetto che in tenera età deve affrontare la più amara esperienza dell’esistenza umana: l’approdo alla non-esistenza). Ancora una volta il grande deserto, il maru-mori (se mi si consente l’accostamento tra le similari significazioni sanscrite e latine) che delimita spazialmente l’arco del tuffo: l’ignoto pittore ci fa chiaramente intendere, raffigurando un verdeggiante albero che nettamente si staglia sull’opposto litorale, che il giovinetto approderà nella contrada d’un nuovo mondo, il mondo della vera conoscenza, della prosperità, delle frutta abbondanti e succose. Così è anche per Chiellino: “Si tuffa nel suo abisso / in cerca della luce / da dove un tempo fu espulso, / esiliato nel regno metamorfico, / nel gioco del non essere”. Quel fanciullo, splendido koũros, altri non è che il poeta, il vero poeta che in sé rattiene il dono della profezia e del disvelamento epifanico, che anela alla riunificazione empedoclea dell’Uno con il Tutto, della Natura con la Cultura, del determinato con l’indeterminato, del limite con l’universalità: “O sogno empedocleo che ti rinnovi / in ogni uomo che attraversa il giorno / attratto dai bagliori del tramonto / memoria d’aurora incipitaria!”; e ancora: “cerca il divino sguardo luminoso / dove l’Uno e il Tutto sono in eterno”. Un anelito all’unitarietà dell’Essere che, accanto al titanico éffort del Poeta che tenta di pervenire ad una estrema sintesi conoscitiva, può essere esperita, secondo Chiellino, anche nella quotidianità sotto forma di rimembranza, di rêvérie, ma anche di inveramento delle sotterranee intese che animano la vita di chi si è lasciato affascinare dai vincoli dell’amore: “Ritroverò il tuo sorriso lieve, / il tuo sguardo amoroso, la tua voce / nel mare fermo del tempo che non ruota / dove il tuo posto e il mio saranno Uno”.
Come si vede, nel Nostro il versante esistenziale, che riguarda le coordinate della vita vissuta nella quotidianità, e che acquisisce consistenza e dignità attraverso l’arricchimento che ne viene dal filtro delle passate esperienze, che alimentano il filone del ricordo – individuale o storicizzato, non importa – e danno consistenza al presente e credito al futuro, va sempre di pari passo con l’aspetto conoscitivo, con la ricerca filosofica del Vero e del Bene. Ed essendo Chiellino un Poeta, di quelli veri, la riflessione non può che essere sostanzialmente poetologica. Ed il dato testè evidenziato non paia troppo scontato, perché la poesia italiana contemporanea (in questo caso la “p” minuscola non è un refuso) non ha più nozione di se stessa, il poeta non si interroga più sull’essenza, sulla fenomenologia, sulle finalità dell’atto poetico, si libra nell’etere come se tutto fosse da sempre scontato, o che non abbia più senso il porsi degli interrogativi sulla natura e sul senso della Poesia. Anche in questa silloge Chiellino, non da Filosofo ma da Poeta (anche se sarebbe ora che si tornasse all’antico quando non vi era separazione o distinzione tra le due figure) continua la sua particolare gnoseologia. Illuminante, in proposito, la lirica La vite (che per certi versi rimanda a Die Eichbäume di Hölderlin, solo che in questo caso il riferimento non va alle querce ma alla vite, alla sua simbologia densa e vitale, alla sua solidità che le consente, sia pure in modo contorto, di prosperare su un terreno duro, argilloso, arido per fornire il più prezioso nettare), in cui la prodigiosa pianta mirabilmente situata, come l’uomo, tra le due sfere dell’Alto e del Basso, dello Yang e dello Yin, porge “… al poeta / la fiamma creatrice / e il sotterraneo gelo / nel calice lucente / della sillaba che si fa parola / e cresce in canto”. Una versificazione d’altri tempi, che non esita a chiedersi “In quale inchiostro intingono la penna / i poeti del circolo di Dio, / gl’inventori del verbo”; o che, finalmente, sa trasmettere delle certezze fondanti: “Nessun dilemma turberà il viaggio / trovato il giusto passo / verso la nuova Luce”. Chiellino: ancora una volta testimone del nostro esser-ci, profeta di futuri tempi a venire che si spera sappiano ancora una volta coniugare la sophìa con l’arethè, il kalòn con l’agathòn, ossia la Saggezza con la Virtù morale, il Bello estetico con il Buono etico: “dove stagna il silenzio cresce il canto, / dove domina l’ombra nasce l’alba / e dove la vittoria della luce / fulgida svetta, trova la notte / inaspettato regno / nel gioco dell’eterno mutamento”.
Fonte: GENESI EDITICE
Se in alcune precedenti raccolte (ma soprattutto ne Il volto della memoria, Roma 2000) uno dei nuclei tematici centrali era dato dalla riflessione sulla nozione di tempo, inteso sia agostinianamente come distensio animae, sia bergsonianamente come durata della coscienza e come energetica corrente vitale nella quale ogni momento trapassa nell’altro senza apparente soluzione di continuità (e qui si sentiva il lascito della profonda frequentazione del mai dimenticato Nicola Silvi), in Luce crepuscolare il vissuto viene declinato sul versante della spazialità. E questo sin dalla bellissima lirica d’esordio: Paesaggio per Mara (uno dei tanti paesaggi che ritroviamo nella silloge), laddove all’interno d’un ambiente marino colmato dalle “pareti della nebbia”, e che richiama più certe tele ottocentesche di pittori del Nord Europa, danesi e scandinavi (come alcune angoscianti scene di mare ritratte dagli artisti più cupi della scuola di Skagen) che non il solare e ventoso Jonio, Chiellino subito ci sbilancia con osservazioni di lucreziana memoria. Il Poeta, tranquillamente seduto (immaginiamo) sul litorale, in compagnia della donna amata (“Io seguo i tuoi capelli fra i pianeti / mentre le dita sfiorano il tuo seno”) osserva in lontananza lucerne che “schiene curve mostrano sui remi”; di lì l’interrogativo che solo il Poeta può porsi: “sono uomini che vanno alla deriva / o è la rotta giusta per tornare? / Inseguono approdi / della buona sorte / o cercano nel fondo delle acque / le tracce della vita e della morte?”. In pochi versi, quasi distrattamente esposti, viene racchiusa l’essenza del nostro esserci più profondo giocato sul mare magnum della vita, ed evidenziato dalle intense simbologie del mare stesso e del porto. Il primo – se si dà credito al Curtius che ne fa derivare l’etimologia dal sanscrito maru, che significa deserto, e quindi landa sconfinata, priva di vita e di vegetazione dove l’uomo può facilmente naufragare e soccombere (infatti, la radice mar significa in primis morire) – si pone come termine di paragone dell’esistenza umana, metafora dell’avventura nella quale tutti ci dobbiamo necessariamente buttare se vogliamo conoscere l’essenza del nostro esser-ci all’interno dell’Universo (ci ammoniva Blaise Pascal: vous êtes embarqués, a sottolineare l’impossibilità per l’uomo di sottrarsi alla scommessa del mettersi in gioco), ma anche metafora del mare interno, del mondo delle passioni che ci squassano con l’intensità d’una feroce bufera, ed ancora rappresentazione – secondo una sempre attuale considerazione del monaco medievale Aelredo di Riévaulx – del secolo presente, inteso come distanza che separa l’uomo da Dio.
E poi il porto: il punto d’entrata e d’uscita, la salvezza per chi ritorna dopo essersi sottratto alle innumerevoli insidie del mare, ma anche il punto di partenza per chi quelle insidie per necessità o libera scelta le vuole affrontare; Ulisse che parte ed Ulisse che ritorna; luogo di festa per il naufrago e luogo di lutto per chi ha dovuto soccombere; luogo da cui lucrezianamente (Epicuro insegna!) osservare l’inutile affannarsi dell’uomo ma anche luogo nel quale esistenzialmente non possiamo non farci carico dell’angoscia di chi soffre e muore cercando se stesso.
Per Chiellino, dall’alto della sua saggezza di uomo di mare, la salvezza è più vicina di quanto può apparire, e forse non la vede solo chi non la vuol vedere, tutto compreso di una sorta di vuoto e inutile titanismo: la spazialità (nella silviana dimensione spazio-tempo alla quale accennavamo prima) la si può delimitare con più facilità rispetto alla temporalità, può essere confinata all’interno d’una dimensione familiare, di piccola Heimat o comunità con i suoi costitutivi elementi fondanti; ed allora la bimba Carmen (nipote del Nostro, ma soprattutto simbolo d’una natura umana non ancora contaminata), può aprirsi al lento raccontare del mare, lasciarsi andare al suo leggiadro suono, avvertirne la presenza materna e paterna (se è vero che in origine il mare era la divinità delle divinità: Oceano, il flusso energetico che da sempre circonda il mondo).
Le coordinate gnoseologiche della raccolta di Chiellino trovano un altro punto di inveramento in una straordinaria – per intensità di scrittura e per ricchezza di rimandi culturali – lirica dal titolo La tomba del tuffatore, chiaro riferimento ad uno dei più significativi manufatti dell’epoca aurea della cultura pestana, databile tra il 470 e il 480 a.C. Un giovine si tuffa a volo d’angelo – ed è lo strabiliante tuffo della morte – dalle colonne d’Ercole, da sempre statuaria e stentorea raffigurazione dei limiti delle umane conoscenze ed esperienze, nel grande mare, che in questo caso viene rappresentato in pausa di maccherìa (quasi a svenarne la minacciosità e pericolosità, come atto di indulgente clemenza nei confronti del giovinetto che in tenera età deve affrontare la più amara esperienza dell’esistenza umana: l’approdo alla non-esistenza). Ancora una volta il grande deserto, il maru-mori (se mi si consente l’accostamento tra le similari significazioni sanscrite e latine) che delimita spazialmente l’arco del tuffo: l’ignoto pittore ci fa chiaramente intendere, raffigurando un verdeggiante albero che nettamente si staglia sull’opposto litorale, che il giovinetto approderà nella contrada d’un nuovo mondo, il mondo della vera conoscenza, della prosperità, delle frutta abbondanti e succose. Così è anche per Chiellino: “Si tuffa nel suo abisso / in cerca della luce / da dove un tempo fu espulso, / esiliato nel regno metamorfico, / nel gioco del non essere”. Quel fanciullo, splendido koũros, altri non è che il poeta, il vero poeta che in sé rattiene il dono della profezia e del disvelamento epifanico, che anela alla riunificazione empedoclea dell’Uno con il Tutto, della Natura con la Cultura, del determinato con l’indeterminato, del limite con l’universalità: “O sogno empedocleo che ti rinnovi / in ogni uomo che attraversa il giorno / attratto dai bagliori del tramonto / memoria d’aurora incipitaria!”; e ancora: “cerca il divino sguardo luminoso / dove l’Uno e il Tutto sono in eterno”. Un anelito all’unitarietà dell’Essere che, accanto al titanico éffort del Poeta che tenta di pervenire ad una estrema sintesi conoscitiva, può essere esperita, secondo Chiellino, anche nella quotidianità sotto forma di rimembranza, di rêvérie, ma anche di inveramento delle sotterranee intese che animano la vita di chi si è lasciato affascinare dai vincoli dell’amore: “Ritroverò il tuo sorriso lieve, / il tuo sguardo amoroso, la tua voce / nel mare fermo del tempo che non ruota / dove il tuo posto e il mio saranno Uno”.
Come si vede, nel Nostro il versante esistenziale, che riguarda le coordinate della vita vissuta nella quotidianità, e che acquisisce consistenza e dignità attraverso l’arricchimento che ne viene dal filtro delle passate esperienze, che alimentano il filone del ricordo – individuale o storicizzato, non importa – e danno consistenza al presente e credito al futuro, va sempre di pari passo con l’aspetto conoscitivo, con la ricerca filosofica del Vero e del Bene. Ed essendo Chiellino un Poeta, di quelli veri, la riflessione non può che essere sostanzialmente poetologica. Ed il dato testè evidenziato non paia troppo scontato, perché la poesia italiana contemporanea (in questo caso la “p” minuscola non è un refuso) non ha più nozione di se stessa, il poeta non si interroga più sull’essenza, sulla fenomenologia, sulle finalità dell’atto poetico, si libra nell’etere come se tutto fosse da sempre scontato, o che non abbia più senso il porsi degli interrogativi sulla natura e sul senso della Poesia. Anche in questa silloge Chiellino, non da Filosofo ma da Poeta (anche se sarebbe ora che si tornasse all’antico quando non vi era separazione o distinzione tra le due figure) continua la sua particolare gnoseologia. Illuminante, in proposito, la lirica La vite (che per certi versi rimanda a Die Eichbäume di Hölderlin, solo che in questo caso il riferimento non va alle querce ma alla vite, alla sua simbologia densa e vitale, alla sua solidità che le consente, sia pure in modo contorto, di prosperare su un terreno duro, argilloso, arido per fornire il più prezioso nettare), in cui la prodigiosa pianta mirabilmente situata, come l’uomo, tra le due sfere dell’Alto e del Basso, dello Yang e dello Yin, porge “… al poeta / la fiamma creatrice / e il sotterraneo gelo / nel calice lucente / della sillaba che si fa parola / e cresce in canto”. Una versificazione d’altri tempi, che non esita a chiedersi “In quale inchiostro intingono la penna / i poeti del circolo di Dio, / gl’inventori del verbo”; o che, finalmente, sa trasmettere delle certezze fondanti: “Nessun dilemma turberà il viaggio / trovato il giusto passo / verso la nuova Luce”. Chiellino: ancora una volta testimone del nostro esser-ci, profeta di futuri tempi a venire che si spera sappiano ancora una volta coniugare la sophìa con l’arethè, il kalòn con l’agathòn, ossia la Saggezza con la Virtù morale, il Bello estetico con il Buono etico: “dove stagna il silenzio cresce il canto, / dove domina l’ombra nasce l’alba / e dove la vittoria della luce / fulgida svetta, trova la notte / inaspettato regno / nel gioco dell’eterno mutamento”.
Fonte: GENESI EDITICE
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