martedì 2 settembre 2008

Il Procuratore Salvatore Boemi: Reggio non è mai stata con noi

Il Procuratore aggiunto della DDA di Reggio Calabria, Salvatore Boemi, lancia un appello "alla comunità calabrese e reggina in particolare, perché non stia più dietro ad una finestra a guardare, ma trovi il coraggio di essere protagonista di una nuova stagione di lotta alla criminalità", e afferma: "Reggio non è mai stata con noi. Non contro di noi ma non è stata mai con noi". La citazione del collega Nino Scopelliti, ucciso in un agguato, diciassette anni fa: "il giudice è sempre solo".

Articolo di Antonio Aprile e Angela Chirico,

pubblicato su La Riviera On Line - 01.09.2008:

REGGIO CALABRIA. Ha il dono di parlare chiaro, Salvatore Boemi, Procuratore aggiunto della DDA di Reggio Calabria. Uno che i problemi legati alla criminalità organizzata li conosce bene, dopo tanti anni in prima linea nella lotta contro la ’ndrangheta. Anni vissuti, spesso, in solitudine. Perché, come dice lui stesso citando il collega Nino Scopelliti, ucciso in un agguato diciassette anni fa: «il giudice è sempre solo. Solo nel giudicare, solo con le menzogne alle quali ha creduto o le verità che a volte gli sono sfuggite, ma con la fede cui si è sempre e spesso aggrappato». È una esortazione, la sua, alla comunità calabrese e reggina in particolare, perché non stia più dietro ad una finestra a guardare ma trovi il coraggio di essere protagonista di una nuova stagione di lotta alla criminalità. «Parlando con qualche giornalista che come me è un patito di calcio - è stato l’amaro sfogo di Boemi- dico sempre che giochiamo non in un campo avverso. Peggio. Giochiamo in un campo senza spettatori. Reggio non è mai stata con noi. Non contro di noi ma non è stata mai con noi». Si parla spesso della necessità di una modifica della legislazione antimafia ma quali sono effettivamente gli strumenti in mano ai magistrati e dove si inceppa la macchina della giustizia? «Non è facile rispondere. Dalla morte di Falcone a oggi è stata una continua lotta, si è fatto un passo in avanti e due indietro. Distinguiamo le problematiche strutturali da quelle processuali. La magistratura, l’antimafia nel suo complesso, sono sempre stati penalizzati dal fatto che il nostro è un paese perennemente in crisi economica. Il dottore Gratteri si lamenta perché le sue macchine non hanno benzina, il Procuratore Pignatone si rende conto che la Procura distrettuale non è un ufficio sicuro, eppure non accade niente. Io dico che sulle tematiche strutturali bisogna mettere proprio una pietra tombale sopra e lavorare, accettare queste condizioni e andare avanti senza piangersi addosso. Ci manca un po’ di tutto, però questo è nella logica delle cose. Allo stesso modo mancò tutto a Palermo negli anni successivi al maxi uno, quando dopo avere costruito una splendida aula bunker non si fece un passo in avanti. Poi ci sono i problemi processuali e questi sono drammatici veramente perché nessuno ne parla, né tantomeno l’informazione che in Italia è drogata dai poteri forti. Oggi le indagini si svolgono all’80% su intercettazioni perchè nessuno collabora con la magistratura. Checché si parli di una svolta, le denunce sono sempre troppo poche. La gente non si fida, non parla. Ha scelto il patto con la mafia, tanto una “tassa” in più si può anche pagare. Stiamo andando verso un tracollo giudiziario inquietante, nel silenzio colpevole di tutti, perché nel momento in cui ci verranno vietate le intercettazioni, ci saranno ristrette le possibilità di captare». Ci fa un esempio? «L’ultima inchiesta sui Piromalli di Gioia Tauro, che si basa non su intercettazioni normali ma su captazioni carcerarie. Nell’assenza di voci processuali è diventato prova addirittura ciò che si dice durante i colloqui. Dopo questa inchiesta si è giunti a un punto di non ritorno, ci sono già famiglie mafiose che non vogliono neppure fare i colloqui. A noi magistrati antimafia, molto più della benzina o dei fotocopiatori, mancano le voci processuali e senza di queste i processi non si potranno fare». Lo diceva anche il Procuratore nazionale Piero Grasso che senza intercettazioni o nuove confessioni lo stesso fascicolo su Nino Scopelliti non si potrà riaprire… «Guardi, il processo Scopelliti io l’ho vissuto direttamente. Dall’ottobre del 1993 trovai un fascicolo aperto già ben istruito dai colleghi della Procura di Reggio. Fu uno dei primi processi che noi portammo avanti. Il caso Scopelliti per ciò che ha rappresentato, e mi lasci dire che solo i reggini ne capiscono l’importanza, è stato il centro perenne di tutta un’attività antimafia del nostro ufficio. Un caso emblematico che non passerà mai in secondaria importanza. Fu l’ultimo omicidio della guerra di mafia. Dopo, a Reggio, non si sparò più mentre prima, per sei anni e nel disinteresse delle istituzioni nazionali, qui raccoglievamo un morto al giorno. Ma c’è anche un’altra ragione che ne fa un caso significativo. Si trattò di un grande omicidio delle mafie, frutto di un accordo che si basava sulla richiesta siciliana di bloccare il maxi-processo ad ogni costo. I corleonesi, nella loro ottusità, pensavano che la morte del rappresentante della pubblica accusa potesse determinare quello slittamento di uno o due mesi del processo che avrebbe portato alla scarcerazione di tutti gli imputati detenuti. Fu compiuto in Calabria perché i rapporti con la mafia siciliana, risalenti ai tempi del bandito Giuliano, si saldarono negli anni ’50 quando, le grandi figure mafiose calabresi richiedevano con insistenza di trascorrere il periodo carcerario in Sicilia. Nel carcere di Palermo si saldò questa grande alleanza. Il processo Scopelliti è nato, ha superato lo scoglio dell’udienza preliminare ottenendo un’ottima sentenza di primo grado nella quale si affermava che il vertice siciliano era mandante dell’omicidio. Queste conclusioni, se confermate in appello, probabilmente avrebbero aperto la strada ad altre collaborazioni. A noi non mancano i mandanti di quell’omicidio ma gli esecutori materiali. Perché si è bloccato tutto? Perché si è scelto di fare crollare il teorema Buscetta proprio a Reggio Calabria ma di questo ne risponde chi, in Corte d’Appello, scrivendo una sentenza che io non ho mai condiviso, tanto è vero che si è fatto ricorso in Cassazione, ha determinato questo scollamento giudiziario. Ripeto: non è un caso oscuro. Sono convinto, come ho sostenuto pubblicamente nell’accusa in quel processo, che l’impostazione originaria della procura distrettuale sia l’unica realtà vivibile e tangibile di questa vicenda». Tornando a questo presunto patto che la comunità stringe con la criminalità organizzata: in un territorio storicamente disilluso, in cui lo Stato è latitante, l’antistato, cioè il crimine, può essere considerato un male necessario, qualcosa a cui aggrapparsi dove lo Stato non c’è? «Intanto c’è una tradizione secolare. La sicurezza nel meridione, molto più che dallo Stato, è stata rappresentata dalla mafia. In Calabria si crede che, stringendo un patto ben preciso con l’organizzazione che rappresenta il territorio, si acquisisca la certezza di poter operare con tranquillità e serenità, che, ad esempio, i cantieri non subiscano danneggiamenti. In definitiva c’è una spartizione economica vera e propria. Non è che lo Stato non c’è: il problema è che con un processo penale come quello nostro di tipo anglosassone in cui la prova si forma nel dibattimento, andare in aula come ha fatto un collaboratore a dire “al Gebbione non c’è lo Stato ma i Labate”, ci vuole un coraggio che rasenta quasi la follia. La stessa che alla fine ha poi colpito, purtroppo, lui e la sua famiglia. La mafia non ha più bisogno del kalashnikov o del tritolo per intimidire, basta la presenza fisica del suo rappresentante. È indiscutibile che tutto questo porta nel processo penale a quella carenza di voci processuali che è una realtà. I processi, ad esempio, oggi sono basati più su reati di tipo associativo che su reati specifici come l’estorsione perché le parti offese negano l’evidenza e, senza la collaborazione della vittima, è difficile arrivare alla certezza della condanna. C’è un’altra vicenda importante da dire, gli anni ’90 hanno anche sancito la sconfitta del pentitismo di tipo mafioso, perché sul pentitismo mafioso si è rivoltata tutta una parte della intellighentia italiana sia politica sia economica. Il dottore Pignatone, quando è venuto a Reggio, mi ha chiesto chi siano gli ultimi collaboratori. Io ho risposto che gli ultimi risalgono a tre anni fa, dopodichè non ne abbiamo più avuti. Questo dovrebbe fare pensare com’è la realtà e che tutto sommato si accetta per quieto vivere questa situazione per cui la mafia costituisce una sorta di agenzia di assicurazione sul prodotto che uno vende o su un’attività che uno svolge. Ci vorrebbe una rivoluzione sia culturale che sociale, quei valori di antimafia sociale che qui non ci sono». Gli arresti eccellenti come quello di Paolo Nirta, sono fatti episodici o possiamo pensare che cambino veramente qualcosa? Sicuramente rassicurano il cittadino, ma sono fatti strutturali o no? «Diciamo che in effetti lo Stato è presente. Tutto sommato l’antimafia qui funziona ma non è sufficiente. Ormai è chiaro che la mafia non si batte processualmente. Non è con il carcere che loro smettono di essere mafiosi, anche per i ragazzini questa è un’esperienza che, comunque, va fatta e superata. Oggi si diventa mafiosi per essere potenti economicamente e socialmente. Purtroppo nel campo dei sequestri e nell’accertamento dei patrimoni noi siamo indietro».

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